LA DIVINA LEGGEREZZA DELLA VITA IN SPERANZA
Basilica di san Gaudenzio, 22 gennaio 2025
«Bisogna dire che sperare è vivere in speranza, al posto di concentrare la nostra attenzione ansiosa sui pochi spiccioli messi in fila davanti a noi, su cui febbrilmente, senza posa, facciamo e rifacciamo il conto, morsi dalla paura di trovarcene frustrati e sguarniti. Più noi ci renderemo tributari dell’avere, più diverremo preda della corrosiva ansietà che ne consegue, tanto più tenderemo a perdere, non dico solamente l’attitudine alla speranza, ma alla stessa fiducia, per quanto indistinta, della sua realtà possibile. Senza dubbio in questo senso è vero che solo degli esseri interamente liberi dalle pastoie del possesso sotto tutte le forme sono in grado di conoscere la divina leggerezza della vita in speranza.» (G. Marcel, «Esquisse d’une phénoménologie et d’une métaphysique de l’espérance [1942]», in Homo viator. Prolégomènes à une métaphysique de l’espérance, Paris, Aubier 1944-1963, Association Présence de Gabriel Marcel 1998, 37-86: 78).
Poco meno di un mese fa papa Francesco ha aperto la Porta Santa del Giubileo ordinario del 2025, che ha come motto “Pellegrini di Speranza”. Il 29 dicembre nella nostra Cattedrale abbiamo iniziato il Giubileo, che potrà essere celebrato anche da coloro che, non potendo recarsi a Roma, visiteranno uno dei sei santuari “giubilari” della Diocesi o vivranno durante l’Anno Santo altre occasioni particolari. Nell’omelia della celebrazione inaugurale ho tratteggiato brevemente il senso del Giubileo e il valore del Pellegrinaggio. Ora possiamo concentrare l’attenzione sul tema della Speranza. Oggi abbiamo tanto bisogno di speranza: ci siamo costruiti un mondo che sembra minaccioso e ostile, che svuota i nostri sogni e paralizza le nostre azioni, riducendoci a vivere alla giornata. Soprattutto i giovani sono le vittime di questo clima senza l’orizzonte luminoso della speranza. Cerco di illustrare il tema facendomi aiutare dalle letture che abbiamo ascoltato in questa liturgia solenne, rispondendo a due domande semplici: Cosa possiamo sperare? Come dobbiamo sperare?
1. Cosa possiamo sperare?
Il Vangelo che è stato proclamato (Lc 2,41-52) racconta l’episodio di Gesù dodicenne al tempio, quando, secondo il rito ebraico, egli era arrivato all’età in cui poteva partecipare alla vita della sinagoga, diventando “figlio del precetto” (bar mitzwā), cioè soggetto attivo della proclamazione e della pratica della Torah. Nel racconto ascoltato colpisce il versetto iniziale: «I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua» (v. 41). Maria e Giuseppe partecipano al pellegrinaggio pasquale andando ogni anno a Gerusalemme. Nell’anno significativo del passaggio all’età del precetto («Quando egli ebbe dodici anni…»), anche Gesù va in pellegrinaggio con i suoi («…vi salirono secondo la consuetudine della festa», v. 42). Gesù si mette pienamente nel solco della religiosità del suo popolo, cammina nel grembo della famiglia, si lascia portare dalla festa del pellegrinaggio.
La fede e la speranza non si inventano, ma si ricevono nel cuore del popolo santo e della propria famiglia: prima che un compito, sono un dono, anzi sono la grazia della festa. Solo mettendosi dentro la “consuetudine”, conoscendola ed amandola, si apre lo spazio per l’inedito di Dio e il gioco della nostra libertà. Chi ha ricevuto molto dai genitori, chi ha abitato la vita della città e i linguaggi del mondo, chi ha ascoltato i racconti della tradizione e le imprese dei padri, solo costui può sognare in grande e sperare di compiere azioni che lasceranno un segno nella storia. La prima cosa che ci dice il racconto di Nazareth è questa: se si vuole partire per l’avventura della vita, bisogna piantare le radici nella propria terra. Così ha fatto Gesù, di cui il racconto poco prima dice che «cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di Lui» (v. 40). Su questo terreno ricco di minerali preziosi e succhi vitali (la sapienza e la grazia), irrompe la novità della speranza!
Il seguito della narrazione è conosciuto: prima nell’azione, e poi nel dialogo, il ragazzo Gesù è perso, cercato e ritrovato. Egli non si trova più, tutti lo cercano nella carovana della famiglia e della tradizione, ma egli è andato altrove ed è ritrovato in un’altra casa (il tempio), nella casa di un altro Padre che sembra entrare in conflitto con la prima casa, ma che in realtà è la dimora del futuro, la casa della speranza. Anche il dialogo seguente conferma, con pennellate bellissime, questo gioco a nascondino. Dice Maria: «Figlio (téknon: bambino mio), perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo?» (v. 48). Quando il figlio si apre alla speranza della vita genera angoscia nei genitori, ma il figlio non viene incontro alla loro paura angosciosa di perdere il figlio (piccolo), ma li provoca: «Perché mi cercavate? Non sapevate…» (v. 4)). Il padre e la madre devono sapere che generare non può voler dire trattenere, ma a un certo punto comporta di lasciar andare, di sostenere la difficile avventura della vita in speranza. È proprio Gesù, pienamente inserito nella tradizione dei Padri, che ricorda a Maria e Giuseppe che «…io devo essere nelle (cose, casa, relazione) del Padre mio» (v. 49). Noi mettiamo al mondo figli come miracolo della vita, ma dobbiamo allenarli all’avventura della divina leggerezza della speranza.
Ecco, allora, cosa significa sperare: la spes latina e l’elpís greca, che sembrano venire dalla radice indoeuropea vel-, si pongono nell’orizzonte del “volere”. Per volere e decidere bisogna abitare un’attesa e una tensione verso un “non ancora”. La speranza, allora, si colloca tra “desiderio” e “volere: il “desiderio” dice una mancanza (nel derivare da sidus=stella: de-sidus), esprime “un aspettare dalle stelle”, denuncia la “perdita della costellazione che ci guida nel mare”, dice un “non sapersi orientare”. In tal modo, la speranza è sorretta dalla fiducia, talvolta può attendere solo ciò che appare, può persino sbagliare mèta, ma fin quando essa spera, punta su qualcosa che ha da venire, è in comunione con una certezza che la precede e le viene incontro.
Carissimi, per avere speranze bisogna essere nella speranza: “essere nella speranza” significa riconoscere un senso che ci pervade e una comunione che ci abita, una presenza che ci ama. La speranza, dunque, è la fede distesa nel tempo (essere nella speranza), che si rende presente nelle speranze di ogni giorno (avere speranze). Insegniamo ai figli le azioni e le opere che anticipano il futuro: diciamo ai nostri adolescenti e giovani di osare, sperimentare, provare per trovare la loro strada. La speranza è avventura e rischio, è prova ed errore, è cercare un maestro e una guida che non leghi a sé, ma ti liberi per custodire il tuo sogno e per trovare il tuo cammino. La speranza è la virtù dei forti, è la postura dei nani che si mettono sulle spalle dei giganti del passato, per vedere meglio e oltre loro.
2. Come possiamo sperare?
La lettura apostolica ha proclamato un brano famoso e intrigante della Prima lettera di Pietro (1Pt 3,13-18), la lettera sulla “speranza viva”. Questo significa che ci sono anche false speranze, quelle promesse mirabolanti che sono come i fuochi d’artificio di Capodanno, i quali una volta passati lasciano l’amaro in bocca. La speranza vera, come abbiamo detto, è una tensione tra l’orizzonte del nostro desiderio e la traccia del nostro volere e delle nostre scelte di vita. Per sperare bisogna sognare in grande e agire nello sforzo di ogni giorno per costruire il bene qui e ora. Il brano del capitolo terzo della lettera di Pietro, nel contesto di una grande esortazione ai cristiani “pellegrini e stranieri” nelle regioni dell’Asia settentrionale, inizia così: «E chi potrà farvi del male, se siete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi!» (vv. 13-14).
La speranza rende beati a caro prezzo coloro che sono “ferventi nel bene” e hanno “passione per la giustizia”, che lottano per cambiare la vita delle famiglie e costruire i legami della città, coloro che operano anche quando sono criticati o si mette in dubbio la loro buona fede. L’Apostolo proclama anzitutto la beatitudine di coloro che soffrono per la giustizia, richiamando una delle più caratteristiche beatitudini di Gesù (Mt 5,10). Colpisce che la beatitudine trovi riscontro nella vita delle comunità che devono soffrire per le persecuzioni. L’argomento viene sostenuto dalla citazione di Isaia (8,12): non abbiate paura di loro, non lasciatevi turbare, rivolta agli abitanti di Gerusalemme perché siano coraggiosi contro il pericolo dell’Assiria.
Poi l’Apostolo Pietro ci indica tre passi, tre modi per vivere la divina leggerezza della speranza. Ve li propongo come tre pennellate per farne tesoro in questo Giubileo della speranza.
– Il primo passo riguarda la centralità di Cristo e di Dio nella nostra vita: i cristiani sono invitati ad adorare, cioè «santificare, riconoscere come santo il Signore, Cristo, nei vostri cuori» (v. 15a): il popolo di Dio come “popolo santo” è una comunità di persone che ha al centro dell’esistenza il riconoscimento della santità del Signore. In questo anno giubilare la speranza viva ci chiede anzitutto di mettere in ordine le cose della nostra esistenza, di porre al primo posto ciò che deve stare al centro, il Signore e le cose decisive della vita, del lavoro e della famiglia. Il Giubileo è un anno di riposo della terra, di ricostruzione dei legami, di remissione dei torti e dei debiti, di riconciliazione tra i popoli. Dovrà essere l’anno della pace, cominciando dal basso nella vita di ogni giorno, per costringere i grandi a smettere di uccidere e distruggere, per ritrovare l’anima dell’Europa e dell’Occidente, che è la patria dei martiri e dei monaci, dei santi e dei navigatori, dei giganti del pensiero e della costruzione di un mondo aperto e democratico. Bisogna ridare ordine alla nostra vita mettendo al centro il primato dell’anima e dello spirituale, della carità e della compassione!
– Il secondo passo chiama alla testimonianza personale e civile. L’Apostolo ci chiede di essere «sempre pronti alla difesa di fronte a chiunque vi chieda ragione della speranza che è dentro di voi» (v. 15b). Questa espressione, giustamente famosa, è come il refrain della Prima lettera di Pietro: rendere ragione, fare la difesa o l’apologia, è il termine tecnico del processo, in cui c’è un interrogatorio e un discorso di difesa. La situazione del processo diventa un’occasione per la testimonianza cristiana che risponde a chiunque chieda il lógos (la ragione, il motivo, il senso) della speranza che è in noi! Ecco il messaggio della Prima lettera di Pietro: al centro della nostra vita c’è una speranza a caro prezzo, che è Gesù sofferente divenuto il Signore Risorto! È la “speranza vivente”, cuore dell’esistenza cristiana (in voi) e della comunità cristiana (fra voi)! Oggi è diventata una testimonianza difficile nella vita familiare, lavorativa e sociale: vincono i poli estremi della contrapposizione o della mimetizzazione. Anche noi cristiani abbiamo paura che “rendere ragione” della nostra fede e delle nostre convinzioni non ci faccia sentire accettati dagli altri, oppure orgogliosamente vogliamo far valere la nostra differenza, spacciandola subito per la speranza cristiana. La stessa comunicazione è oggi spregiudicata: inventa notizie false, imbroglia i lettori ignari per vendere una manciata di copie in più e per un pugno di like, avvelenando le relazioni tra le persone. Ma anche le relazioni e la scelta delle persone per posti di responsabilità nella vita sociale e civile seguono talvolta criteri familistici e amicali, piuttosto che valorizzare il merito e la competenza. L’anno del Giubileo dovrebbe puntare sull’onestà, la laboriosità, la generosità nella vita personale e sociale.
– Il terzo passo indica lo stile della vita in speranza. La Prima lettera di Pietro disegna questo stile con tre caratteristiche (v. 16): la nostra testimonianza umana e cristiana deve avvenire con dolcezza (di fronte a chi chiede), con rispetto (timore, davanti a Dio), con buona coscienza (sunéidesis agathé). I nostri rapporti si sono incattiviti, sia nei confronti delle persone che dovrebbero essere maestri e guide della vita dei giovani e della convivenza civile (genitori, maestri, professori, allenatori, infermieri, medici, corpi sociali), sia nei confronti delle persone che abitano la nostra casa (donne e bambini) e la nostra terra (disabili, vulnerabili, migranti). Non dimentichiamo che il carattere disarmato e disarmante dello stile cristiano, anche di fronte alle calunnie riguardo al nostro essere e agire nella luce e nello stile di Cristo, è stato il fattore più importante per il diffondersi del Cristianesimo nei primi quattro secoli. La “gentilezza” del tratto, su cui anche la nostra città di Novara ha investito molto, deve accompagnarsi al rispetto per la dignità delle donne e degli uomini, riconosciuta davanti a Dio, e per una coscienza pura e trasparente.
Il Giubileo di quest’anno ci renda uomini e donne nuovi, abitati da una “speranza viva”. Ma che cos’è una speranza viva? È quella che ogni giorno fa prevalere la fiducia sul sospetto, la tenerezza sulla rigidità, la vicinanza sulla solitudine, l’interesse sul menefreghismo, la compassione sulla rigidità, la generosità sull’egoismo, l’accoglienza sull’esclusione, la fiducia nel prossimo piuttosto che la rivalità sfrenata, la vita semplice e operosa anziché che la ricchezza sfarzosa e ostentata. In una parola la “speranza viva” è l’umile vittoria della vita sulla morte, perché l’abbiamo ricevuta in dono e non possiamo non regalarla agli altri. Questa è la divina leggerezza della vita in speranza!